ISAE - Istituto di studi e di analisi economica
seminario su:
La CONSOB e i problemi posti dalla internazionalizzazione dei mercati borsistici

prof. Filippo Cavazzuti
Commissario Consob

Roma, 28 novembre 2000

La natura seminariale dell'incontro di oggi mi offre l'occasione per sottoporre alla vostra considerazione alcune prime e parziali riflessioni sollecitate dai nuovi e sempre mutevoli contesti in cui la Consob è chiamata ad operare. Novità e mutazioni dovute principalmente alla velocità, fino a ieri inimmaginabile, con cui, grazie alle nuove tecnologie, si muovono e si contrattano i valori mobiliari, e al nuovo ambiente competitivo che si è creato a seguito della caduta di molte barriere legali, amministrative, valutarie e, forse, anche culturali.

Si può dunque prevedere con sufficiente ragionevolezza che the home bias puzzleche tanto ha turbato le riflessione di molti economisti, sia destinato a perdere peso in un futuro non troppo lontano e che l'auspicata maggiore integrazione dei mercati finanziari e la competizione tra loro possano essere fonte di ulteriore sviluppo degli stessi e di nuovi benefici per gli investitori e per le imprese che devono fare ricorso a fonti esterne per il finanziamento dei loro investimenti.

La letteratura economica da tempo sostiene che esiste una relazione positiva tra sviluppo dei mercati finanziari e crescita economica; compito della Consob è dunque quello di sostenere tale sviluppo anche nel contesto della internazionalizzazione dei mercati borsistici e della accresciuta competizione internazionale.

In Europa, già da qualche tempo, si è avviata, con il contributo della Consob, più di una riflessione sui poteri dei regolatori nel nuovo contesto dei mercati finanziari che si vanno integrando, e non vi è dubbio che tali riflessioni abbiano subito una forte accelerazione anche in seguito ai recenti tentativi, più o meno riusciti, di pervenire ad un mercato paneuropeo dei valori mobiliari.

Al fine di superare gli ostacoli ad una maggiore integrazione dei mercati finanziari ed al loro sviluppo quantitativo e qualitativo e per ridurre al minimo le possibilità di arbitraggi regolamentari, le riflessioni accennate riguardano principalmente l'individuazione delle aree che richiedono una nuova modalità di intervento pubblico oppure una estensione e/o riduzione dello stesso, la presenza di elementi di sovrapposizione e di non omogeneità tra i poteri dei regolatori e tra le legislazioni nazionali, le difficoltà di funzionamento della "macchina operativa", soprattutto con riguardo alle diverse prassi, compresa la c.d. "tempistica", tese a fare osservare le leggi ed i regolamenti emanati dalle istituzioni di eteroregolazione o dagli organismi di autoregolamentazione. Disporre delle medesime regole ma applicarle in modo diverso è, infatti, occasione di nuovi arbitraggi non tra le regole stesse, ma tra le prassi.

A fini esemplificativi delle problematiche accennate illustrerò, seppur per sommi capi, tre temi scelti in ambiti assai diversi: il primo attiene a problemi di competizione tra i mercati ed in particolare a quelli dovuti all'affermarsi di sistemi di scambi alternativi (cosiddetti ATS) alle borse ufficiali e che riducono il grado di monopolio di queste ultime; il secondo discute, nell'ambito dell'alternativa pubblico - privato, dei problemi legati all'attribuzione delle competenze sul listinga soggetti privati e, le società di gestione dei mercati, piuttosto che ad autorità pubbliche di eteroregolazione: E' questo un modo per affrontare il tema della qualità del listino delle diverse piazze finanziarie; il terzo riguarda i comportamenti di alcuni soggetti ed in particolare di quelli legati alla corretta informazione finanziaria, che ormai, grazie ai global player, ha travalicato i confini domestici, e all'insorgenza di conflitti di interesse in seno agli analisti finanziari nel caso che questi siano, come si suole dire, anche operatori polifunzionali su di una molteplicità di mercati.

Avverto che la scelta dei temi non riflette un personale giudizio sulla loro importanza relativa. Altri temi, pure di assoluto rilievo, rimarranno dunque fuori dalle mie considerazioni di oggi. Ricordo, primi fra tutti, la questione degli assetti istituzionali della R egulationof European Securities Markets, tema sul quale il Gruppo dei Saggi ha prodotto le sue prime riflessioni, e la questione di fondamentale rilievo, per così dire "pratico", dell'integrazione fra i sistemi nazionali di custodia titoli e liquidazione delle operazioni di borsa.

C'è un'ulteriore tema che rimarrà fuori dalla mia trattazione ma sul quale vorrei spendere alcune brevi parole.

Si tratta del fenomeno della massiccia ricomposizione dei portafogli delle famiglie italiane, che sempre più si orientano verso il risparmio gestito da investitori professionisti- in particolare fondi e gestioni patrimoniali -, piuttosto che verso l'investimento diretto (e fatto di persona) in singoli strumenti finanziari, caso mai con l'assistenza di efficienti reti di promotori finanziari.

Se, da un lato, questo fenomeno avvicina il nostro paese a quelli con mercati dei capitali più sofisticati e sviluppati, dall'altro, esso richiede alla Consob un notevole sforzo di "riposizionamento" dell'attività di vigilanza e supervisione su mercati finanziari. Al controllo sui prospetti e sulle offerte di singoli strumenti finanziari destinati al pubblico retailed a quelli del fai da te, è necessario ora affiancare una più robusta ed incisiva vigilanza sui conflitti di interesse in seno alle società di gestione del risparmio (Sgr) a cui i singoli risparmiatori affidano le proprie fortune finanziarie.

Per meglio soddisfare queste nuove esigenze della vigilanza il controllo sull'attività dei promotori finanziari (in Italia circa cinquantamila) oggi affidato alla Consob, potrebbe, con opportune modifiche legislative, essere invece affidato all'autoregolamentazione delle reti, o di altri organismi di autoregolamentazione appositamente costituiti, così come avviene in molti altri paesi. L'attività della Consob potrebbe così concentrarsi sui conflitti d'interesse dei gestori che intermediano la gran massa del risparmio delle famiglie.

I conflitti di interesse che possono affliggere le Sgr sono molteplici: si va dall'incentivo a sottoscrivere e a far sottoscrivere titoli di società nei confronti delle quali il gruppo bancario di appartenenza della Sgr ha rilevanti esposizioni creditizie, all'incentivo a partecipare ai collocamenti di titoli di società non proprio brillanti o con elevata combinazione di rischio e rendimento, organizzati da intermediari finanziari "amici", per poi affrettarsi a venderli sul secondario o a collocarli nel portafoglio di un non ben informato risparmiatore e vedersi, così, ricambiato in futuro il favore.

Il tema meriterebbe una trattazione più approfondita. Mi limito solo ad osservare che la crescita del risparmio gestito, in Italia come in altri paesi europei, farà inevitabilmente emergere il tema della convergenza negli approcci domestici in tema di vigilanza sulla correttezza e trasparenza con cui i gestori del risparmio adempiano al mandato dei risparmiatori. Non a caso, il tema è oggetto dei lavori di uno dei working partiesdel Forum of European Securities Regulators(FESCO).

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Il primo tema riguarda la concorrenza tra i mercati dei valori mobiliari ed in particolare la regolamentazione dei cosiddetti alternative(secondo alcuni automated) trading systems, in gergo ATS: si tratta di soggetti, di norma società profit oriented, che gestiscono sistemi automatizzati di scambi secondo regole che consentono il perfezionamento di contratti irrevocabili di valori mobiliari. Gli ATSsi stanno rapidamente sviluppando anche in Europa: attualmente se ne contano 27, dei quali 16 autorizzati nel Regno Unito e 6 in Germania. Sono mercati che, nei fatti, stanno esercitando una forte pressione competitiva sugli altri mercati domestici dei valori mobiliari.

Non esiste, tuttavia, una normativa specifica, nazionale e/o comunitaria, per gli ATS: nella maggior parte degli ordinamenti essi possono scegliere se assumere lo statusdi mercato regolamentato ovvero di impresa di investimento e quest'ultima rappresenta, nella prassi, l'alternativa preferita. Ciò fa sì che il fenomeno, che presenta senza dubbio profili problematici per i regolatori nazionali, assuma un rilievo anche internazionale. Infatti, gli ATSche assumono la veste di intermediari finanziari possono ottenere il passaporto europeoe quindi offrire i propri servizi veicolando transazioni cross borderall'interno del mercato unico europeo.

In questo contesto, ci si domanda a livello internazionale se sia opportuno prevedere per gli ATSuna disciplina specifica, possibilmente diversa da quella dei mercati e degli intermediari.

La domanda ha un senso preciso, in quanto le regole potenzialmente applicabili pongono in evidenza il rischio di overkillingben noto alla letteratura sulle regolazione dei mercati: una regolamentazione troppo rigida tesa alla salvaguardia degli interessi domestici degli intermediari potrebbe ostacolare lo sviluppo di tecnologie di tradingaltamente innovative e a basso costo, quali sono quelle che caratterizzano gli ATS. Ciò, a sua volta, impedirebbe agli ATSdi esercitare, soprattutto con i contratti cross border, una adeguata pressione competitiva sulle "vere" borse (quelle ufficiali e regolamentate), come invece ritengo che sia socialmente desiderabile.

In Italia non è previsto un regime di autorizzazione per gli ATS. La Consob può tuttavia richiedere agli organizzatori, agli emittenti e agli operatori dati, notizie e documenti sugli scambi organizzati di strumenti finanziari; il pubblico deve inoltre essere informato sugli scambi, che possono essere vietati nel caso in cui ciò si renda necessario per tutelare gli investitori.

Sull'altra sponda dell'atlantico, invece, gli Stati Uniti hanno disciplinato il fenomeno a partire dal 1998: la Sec ha stabilito una serie di requisiti, anche in termini di volumi intermediati, che impongono a un ATSla disciplina dei mercati, nonché una serie di obblighi - tra i quali lo svolgimento di funzioni di autoregolamentazione - che devono essere adempiuti. D'altro canto, va sottolineato che all'inasprimento della disciplina degli ATSè stata affiancata una riduzione dei vincoli gravanti sui mercati regolamentati allo scopo di contenere gli effetti distorsivi della regolamentazione sulla concorrenza tra sistemi di scambio tradizionali e ATS.

Osservo che se, in Europa, si immaginasse di adottare una disciplina comune, ancora una volta ci scontreremmo con la questione relativa all'opportunità di avviare un processo di convergenza della legislazione primaria Europea, che imporrebbe anzitutto la modifica della Direttiva sui servizi di investimento e poi le relative variazioni delle leggi nazionali. Tempi assai lunghi, dunque.

E' indubbio, invece, che il recente fenomeno degli ATSrichieda interventi specifici anche nel breve periodo: ai vantaggi che ne possono scaturire sul piano della riduzione dei costi di transazione e dell'innovazione finanziaria si accompagnano, infatti, preoccupazioni per il trattamento degli investitori (soprattutto di quelli non professionali che operano sui segmenti retaildei mercati) e la salvaguardia dell'integrità dei mercati. In particolare, la tutela dei risparmiatori potrebbe essere inficiata da strutture organizzative e da conflitti di interessetali da minare il rispetto del principio della best execution.

L'integrità del mercato, d'altro canto, potrebbe essere violata nel caso in cui non fossero rispettati gli opportuni standard di trasparenza, ovvero mancassero strutture di registrazione e archiviazione delle transazioni che costituiscono il presupposto per lo svolgimento di un'efficace attività di controllo degli scambi, ovvero non fossero predisposte strutture di enforcementin grado di sanzionare comportamenti scorretti da parte degli operatori.

In questo contesto, che, come detto, favorisce gli scambi cross border, la convergenza delle legislazioni nazionali verso standard compatibili si rende necessaria anche per garantire l'efficienza stessa dei mercati finanziari. Si pensi, ad esempio, al ruolo che svolgono ai fini della costituzione di un sistema di scambi efficiente la disciplina dell'ammissione a quotazione e dell'ammissione alla negoziazione, sulle quali tornerò fra breve, il regime legale del market abuse, la disciplina dell'informativa continua e periodica, l'obbligo o il non obbligo della concentrazione degli scambi.

Se, a fronte dello sviluppo degli ATS, esistono dunque buoni motivi a sostegno di una apposita regolazione, rimane comunque da valutare quali strumenti adottare anche al fine di evitare il ben noto rischio dell' overkilling,il cui esito sarebbe la riduzione della competizione tra i mercati dei valori mobiliari. Al proposito, il Fescoha elaborato una proposta interessante: nel breve termine, le Autorità di vigilanza nazionali potrebbero applicare agli ATSil regime previsto per le imprese di investimento, impegnandosi al tempo stesso a seguire, in fase applicativa, indicazioni comuni, definite a livello internazionale. Tale proposta, avvierebbe il processo di convergenza, minimizzerebbe i costi di adeguamento della legislazione esistente e preluderebbe a un intervento di lungo periodo, di più ampio respiro, diretto a sostituire la disciplina dei mercati regolamentati con una più generale disciplina dei sistemi di scambi.

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Il secondo tema attiene all'ambito dell'alternativa tra pubblico e privato ed in particolare riguarda la cosiddetta listingauthority, cioè l'autorità competente per l'ammissione di un titolo alla quotazione ufficiale su di una borsa valori che ha lo status di official listai sensi delle direttive europee.

La definizione di quale o quali debbano essere le autorità o i soggetti competenti nel decidere l'iscrizione di un titolo alla quotazione ufficiale - e dirò fra un attimo cosa si deve intendere esattamente per quotazione ufficiale - pone due ordini di problemi strettamente connessi: uno di disomogeneità degli attuali assetti istituzionali, l'altro di conflitto di interessi in seno alla società di gestione dei mercati.

Per ciò che concerne gli assetti istituzionali, pur nella cornice fissata dalle direttive europee, i paesi europei hanno adottato scelte regolamentari diverse: da un lato vi sono i paesi europei continentali, dall'altro vi è l'esperienza inglese. Entrambi differiscono da quella degli USA.

Per comprendere con precisione tali diversità è necessario fare una breve - e spero non troppo noiosa - digressione sul concetto di listingfissato nella normativa comunitaria.

L'attività di listingsi sostanzia nella definizione dei requisiti di quotazione per i titoli e i loro emittenti (situazione giuridica e negoziabilità dei titoli, flottante, situazione giuridica e dimensionale dell'emittente, obblighi di informativa periodica e continua successivi alla quotazione, composizione del consiglio di amministrazione, presenza di amministratori indipendenti, trasparenza dei bilanci societari, rapporti tra i gruppi, e così via), nella definizione dei contenuti del prospetto di quotazione necessari affinché "gli investitori...possano giudicare con fondatezza la situazione patrimoniale e finanziaria, i risultati e le prospettive dell'emittente" (art. 4, comma 1, direttiva 80/390), e eventualmente nel controllo del prospetto stesso.

Il concetto di listingimplicito nelle direttive europee in materia di borse e mercati finanziari poggia sulla distinzione (che in alcuni ordinamenti è spesso tutt'altro che nitida) fra listinge trading,ovvero fra admission to listinge admission to trading, dove la prima fa riferimento alla ammissione a quotazione su di un mercato (quello ufficiale) concessa dalle autorità competenti sulla base di norme emanate in attuazione delle direttive 79/279 e 80/390, mentre la seconda fa riferimento alla ammissione su di un mercato che è regolamentato, ma per il quale non è possibile parlare di quotazione ufficiale e quindi di listing, ma esclusivamente di negoziazione e quindi di trading.

Tale distinzione, tuttavia, non trova riscontro nei paesi dell'Europa continentale che hanno esteso l'ambito di applicazione delle direttive 79/279 e 80/390 anche ai secondi mercati o ai mercati paralleli (ad esempio mercato ristretto in Italia o second marchéin Francia), prevedendo delle differenziazioni solo per ciò che riguarda i requisiti di ammissione.

In Italia, ad esempio, il Tuf ha recepito l'impostazione della direttiva sui servizi di investimento (ISD) senza prevedere sostanziali distinzioni fra mercato ufficiale e altri mercati, ma semplicemente facendo riferimento ai mercati regolamentati, che però di fatto tendono a sovrapporsi con la definizione di mercato ufficiale delle direttive 79/279 e 80/390. Infatti, il Tuf stabilisce espressamente (art. 113) l'obbligo del prospetto di quotazione per l'ammissione ad un qualsiasi mercato regolamentato, trattandoli quindi tutti come "ufficiali" ai sensi della direttiva 80/390. In realtà il Mercato Ristretto ed il Nuovo Mercato non sono perfettamente allineati al disposto della direttiva 79/279, poiché ad essi non si applica uno dei requisiti (il numero di bilanci) previsto dalla direttiva stessa (e quindi potrebbero non essere considerati ufficiali a pieno titolo). Tuttavia, appare eccessivo con riferimento a tali mercati parlare di semplice admission to trading.

Dal punto di vista istituzionale il Testo unico della finanza prevede che le competenze sul listingsiano divise fra la società di gestione del mercato, che fissa i requisiti per la quotazione, e la Consob, che approva il prospetto informativo per l'investitore dopo che la società di gestione ha ammesso a quotazione la nuova società.

La distinzione fra admission to listinge admission to tradingè evidente invece nel Regno Unito, che ha recepito la direttiva sui servizi d'investimento in modo diverso dall'Italia, distinguendo tra listing e trading. Inoltre, di recente la funzione di listingè passata dal LSE all'FSA che è quindi divenuta l'unica listing authoritynel senso "pieno" del termine: essa è responsabile del controllo del prospetto, della definizione dei requisiti per l'ammissione all' official liste dell'informativa periodica e continua. Le regole dell'FSA precisano inoltre che una condizione necessaria per essere ammessi all' official listè quella di essere ammessi ad un mercato ufficiale.

In sintesi, mentre il listingè deliberato dall'FSA, l'ammissione al tradingsu di un mercato ufficiale è deliberata dalla società che gestisce il mercato che ha tale status(cioè un mercato ufficiale). In sostanza, quella che è definibile come admission to tradingè un atto della società di gestione del mercato che adesso riguarda sia l'ammissione agli scambi su mercati regolati ma non ufficiali sia l'ammissione agli scambi su mercati ufficiali.

Ricordo, infine, che negli USA non esiste una distinzione formale fra listinge tradingparagonabile a quella inglese. Negli USA i titoli oggetto di una offerta al pubblico devono essere registrati presso la SEC e gli emittenti sono soggetti agli stessi obblighi di disclosureindipendentemente dal fatto che poi i titoli siano quotati o meno su di una borsa. La borsa può imporre obblighi informativi addizionali. La registrationSEC non è quindi paragonabile (almeno nella forma) all' official listingdell'FSA.

La distinzione tra listinge tradingè di assoluto rilievo per comprendere il secondo problema a cui ho fatto prima riferimento; problema che sorge dal fatto che il fenomeno della demutualizzazione delle borse valori (si veda il caso del London Stock Exchange, o quello della borsa australiana), oppure quello dell'assegnazione ad una società per azioni profit oriented(come nel caso della Borsa Italiana Spa) il compito della gestione del mercato, pone un problema di conflitti di interesse in seno alle stesse società di gestione dei mercati.

Il problema di moral hazardnasce dal fatto che le società di gestione dei mercati profit orientedpotrebbero essere tentate di portare sull' official listsocietà potenzialmente non adeguate per attrarre il risparmio retail- perché troppo giovani, troppo rischiose o semplicemente perché veri e propri lemons-, al fine naturalmente di accrescere le proprie tradinge listing fees.Allo stesso tempo però si deve tenere presente che l'incentivo ad esercitare un adeguato sforzo di marketingper accrescere la dimensione del listino - cosa che mi sembra ormai gli economisti siano concordi nel definire come socialmente desiderabile - è ovviamente superiore a quello che potrebbe avere una - sia pur diligente e ben funzionante - autorità pubblica.

La regolamentazione si trova dunque di fronte al classico dilemma del trade-offfra protezione degli investitori e efficienza/liquidità/sviluppo del mercato finanziario: è meglio avere un listino ampio e altamente rappresentativo della realtà produttiva del paese (e che offre quindi ampie opportunità di diversificazione dei portafogli) ma dove le "mele marce" o quelle "troppo acerbe" possono non essere una rarità, oppure un listino piccolo ma fatto solo di imprese solide e medio grandi che offre maggiori garanzie agli investitori?

Spero - e qui chiudo il discorso su questo punto - di aver dato un'idea di quanto diverse possano essere le opzioni regolamentari sul tema in questione, ognuna con pro e contro: ma la diversità delle opzioni può essere di ostacolo alla costruzione di un efficiente mercato paneuropeo dei valori mobiliari, così come emerge anche dal recente fallimento del progetto iXteso alla fusione della borsa di Londra con quella di Francoforte.

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Il terzo tema riguarda i comportamenti di soggetti che operano sui mercati finanziari con riferimento, in particolare, alla corretta informazione finanziaria e ai conflitti di interesse in seno agli analisti finanziari in occasione dell'attività di produzione di studi sulle prospettive reddituali di un emittente titoli quotati.

La possibile insorgenza di conflitti di interesse dipende dal fatto che l'analista, o i soggetti ad esso collegati, operano in compravendita sul titolo, ovvero svolgono un ruolo attivo nell'ambito delle operazioni - quali quotazione della società, o eventi straordinari come fusioni e scissioni, offerte pubbliche di vendita, aumenti di capitale - in occasione delle quali viene prodotto lo studio.

Nel caso di operatori polifunzionali, i conflitti di interesse potrebbero derivare dalla mancata ovvero dalla insufficiente predisposizione di misure di separatezza organizzativa ( chinese walls), nonché dall'incentivo da parte dall'intermediario ad utilizzare lo studio per indirizzare le scelte di investimento della clientela e operare in controtendenza rispetto ai suggerimenti da lui stesso formulati.

Nel caso italiano, il problema non sembra essere di poco conto. Una recente ricerca mostra infatti che gli oltre 4.500 studi monografici pubblicati nel biennio 1998 -1999 si connotano per una netta prevalenza di "consigli per l'acquisto" rispetto ai "consigli per la vendita", secondo un rapporto di circa dieci a uno.

La netta predominanza degli studi con consiglio operativo buyinduce a ritenere che si sia in presenza di un vero e proprio conflitto d'interesse, per cui la benevolenza dell'analista è finalizzata ad aumentare la probabilità di ottenere mandati per operazioni (imminenti o future) di finanza straordinaria che la società oggetto di studio potrebbe porre in essere. Sorge anche il sospetto che i consigli sellsiano "sussurrati", spesso al telefono e spesso solo alla clientela istituzionale dalla quale l'intermediario ricava il maggior volume d'affari.

Il tema solleva ancora una volta il duplice problema di definire, da un lato, l'intensità degli interventi regolamentari nazionali e, dall'altro, il grado di convergenza sovranazionale che è opportuno ricercare con riferimento alle regole di comportamento applicabili nei confronti dei cosiddetti reputational intermediariesche, di norma, operano su di una molteplicità di mercati.

Per quanto concerne il primo aspetto, la teoria economica conforta la tesi secondo la quale soluzioni "di mercato" sarebbero inefficienti: la presenza di esternalità (il singolo analista non è in grado di appropriarsi pienamente dei risultati derivanti dall'investimento in reputazione) incentiva comportamenti di free-ridingche conducono a una riduzione della qualità degli studi prodotti. D'altro canto, attribuire funzioni di vigilanza a un organismo di autoregolamentazione potrebbe traslare il problema a monte senza risolverlo. Potrebbe apparire dunque più opportuno affiancare a tale organismo un sistema di vigilanza e di enforcementbasato sull'intervento di un'Autorità pubblica indipendente. Ma, allo stato attuale, le legislazioni nazionali presentano aspetti difformi, e tale difformità diventa ancora più grave quando, come nel caso in esame, non è chiaro quale normativa nazionale si applichi a una determinata impresa di investimento che produce studi e ricerche su soggetti quotati.

Ciò porta a considerare il secondo aspetto, ovvero l'opportunità di avviare, anche in questo campo, un processo di convergenza in materia di regole di comportamento degli analisti finanziari e di conflitti di interesse in cui gli stessi potrebbero incorrere.

L'opportunità di quest'ultimo avvio è sollecitata dal considerare che la promozione di condizioni di efficienza nell'ambito del mercato dell'informazione prodotta dagli analisti finanziari passa anche attraverso la definizione di meccanismi tempestivi ed efficienti di divulgazione dell'informazione da parte degli emittenti, da un lato, e della stampa specializzata, dall'altro. Ma questi sono temi, ancora una volta, che richiedono uno sforzo di convergenza da parte dei legislatori e delle Autorità di vigilanza nazionali verso standard comuni.

Sono ancora troppe, infatti, le differenze negli obblighi di informativa continua posti a carico degli emittenti e troppe le distorsioni che ciò genera sia sul piano della complianceda parte dei soggetti vigilati, sia sul piano della valutazione di un titolo da parte degli investitori.

Concludo osservando che il tema della corretta informazione finanziaria e dell'atteggiamento delle Autorità di vigilanza nazionali in materia non è stato forse sufficientemente esplorato in ambito internazionale, pur in presenza dell'attività dei global player. Ad esempio, l'ordinamento inglese ha preferito assegnare un ruolo di disciplina primario ai codici deontologici della professione e ha ritenuto accettabili comportamenti che altrove configurano un illecito. Basti pensare al caso del giornalista che, prima di pubblicare "un consiglio per l'acquisto", effettua negoziazioni sul titolo al quale lo studio si riferisce: mentre negli Stati Uniti ciò individua un market abuse, nel Regno Unito si tratta di un'operazione non censurabile.

Nel caso italiano, alcuni operatori hanno già espresso preoccupazioni sulle frequenti pubblicazioni nelle cronache finanziarie di articoli non rispondenti ai canoni deontologici della professione ed è senz'altro auspicabile che tale sensibilità venga al più presto condivisa dal mondo dell'informazione.

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Una breve conclusione chiude questo mio intervento. Come ho cercato di esemplificare, attingendo in ambiti assai diversi, l'internazionalizzazione dei mercati finanziari e lo sviluppo degli scambi cross borderaccentuano l'evidenza del fatto che siamo in presenza di problemi a cui sono state date soluzioni nazionali differenti che ostacolano la piena integrazione dei mercati, ma anche di problemi nuovi che attendono ancora una soluzione che non vorremmo, in una battaglia di retroguardia, ostacolasse detta integrazione.

In realtà, gli esempi prima portati evidenziano che il problema che si è posto è duplice e di non semplice soluzione.

Da un lato, si tratta di valutare quanto intrusiva debba essere la regolamentazione dei mercati finanziari, e quindi quanto spazio lasciare alla autoregolamentazione anche al fine di non incorrere nel rischio dell' overkilling,ben noto nella letteratura sull'economia delle regolazione.

Dall'altro lato si tratta di individuare un percorso ottimale di convergenza dei sistemi legali, della regolamentazione e della applicazione delle regole fra i paesi europei.

Per quanto riguarda il primo aspetto, ricordo che proprio al fine di evitare il rischio di overkilling, in alcuni ordinamenti si è cercato di arginare il rischio che l'attività regolamentare penalizzi l'innovazione finanziaria formulando, in sede di legislazione primaria, principi che dovrebbero opportunamente guidare gli interventi dell'Autorità di vigilanza. È questo il caso inglese, nell'ambito del quale il Financial Services and Markets Act (FSMA)ha raccomandato sia il cosiddetto principio di proporzionalità, in virtù del quale gli oneri e i vincoli imposti agli operatori devono risultare proporzionali ai benefici per il mercato finanziario considerato nel suo complesso, sia l'adozione di una regolamentazione che agevoli l'innovazione delle attività controllate. L'operato della Financial Services Authoritytenta di recepire le indicazioni del FSMAaffrontando il trade-offche talvolta può insorgere tra flessibilità delle regole, da un lato, e tutela degli investitori e dell'integrità del mercato, dall'altro, avendo riguardo sia all'opportunità di differenziare la regolamentazione in funzione della tipologia e delle caratteristiche degli investitori, sia all'esigenza di mantenere un contatto costante con i soggetti vigilati anche attraverso processi di consultazione.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, un processo di convergenza snello, da attuarsi attraverso una legislazione comunitaria per principi (cosiddette framework directives) e una corrispondenza nelle modalità di attuazione delle direttive da parte sia dei legislatori che delle Autorità di controllo nazionali, può risultare preferibile a un cammino di armonizzazione che richieda in ambito internazionale accordi di dettaglio e che produca, come dimostra l'esperienza più recente, direttive tanto particolareggiate da renderne complicato il recepimento. Alla convergenza è probabile che si accompagni un certo grado di competizione normativa che, pur potendosi rivelare positivo tanto da consentire, nel lungo termine, l'affermazione dell'assetto regolamentare più efficiente, potrebbe tuttavia generare, in assenza di interventi sia pur minimali, un processo di arbitraggio verso il basso, pregiudizievole per la tutela degli investitori, soprattutto di quelli non professionali.

Sono dell'avviso che privilegiare la convergenza, piuttosto che l'armonizzazione, degli assetti normativi possa rappresentare un buon equilibrio tra le esigenze contrapposte della armonizzazione e della competizione fra sistemi regolamentari.

La convergenza potrebbe raggiungersi agendo da subito sul piano della legislazione secondaria, emanata dalle Autorità di vigilanza e dagli organismi di mercato; ciò, a differenza di interventi sulle norme primarie quali direttive e leggi, potrebbe comportare tempi e costi di coordinamento più contenuti. Una scelta simile non potrebbe prescindere da un'intensa collaborazione fra le Autorità di vigilanza.

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