Governo societario e assetti proprietari
Nota su un teorema non dimostrato(1)
Courmayeur, 28 settembre 2001
Luigi Spaventa (2)
Università "La Sapienza" e CEPR
Premessa
Il problema del governo societario nelle grandi corporationsnasce di fatto con Berle e Means. Trova all'inizio poco spazio nella letteratura economica, poiché manca l'ambiente in cui collocarlo: tale non essendo né quello della macroeconomia keynesiana, né quello - di contratti completi e di agenti rappresentativi - dell'equilibrio economico generale (entro cui si situa, nella sua versione estrema, anche il teorema di Coase).
In tempi relativamente recenti, l'analisi economica produce strumenti utilissimi per impostare con rigore la questione: teorie dell'informazione, dei contratti, dell'agenzia, nuove teorie dell'impresa. Ancora più di recente, produce una serie di indagini empiriche a tappeto sulla protezione degli azionisti in connessione con la struttura proprietaria e con lo sviluppo finanziario(3). A livello teorico, tuttavia, gli strumenti di analisi non si compongono in un modello generale; ne risente l'indagine empirica, che offre sì informazioni di grande interesse, ma che è azzardata nei criteri di misurazione e i cui risultati sono spesso contraddittori e paiono spesso fragili.
Gli studiosi di law and economics(giuseconomisti?), soprattutto americani, mostrano più spericolato coraggio degli economisti. Hanno il merito di precederli nell'affrontare sistematicamente il problema sollevato inizialmente da Berle e Means. Non esitano poi a produrre proposizioni forti sulla relazione fra strutture proprietarie e protezione dell'investitore: nelle quali tuttavia è spesso difficile rinvenire solide basi teoriche e fattuali; o stabilire un confine fra l'analisi e la storia degli istituti, che sarebbero utilissime, e le generalità futurologiche alla Fukuyama, che interessano proprio poco.
In questa nota esprimo l'opinione che quelle "proposizioni forti" sono intrinsecamente fragili e pertanto poco utili se impiegate nell'analisi positiva e, soprattutto, in quella normativa.
1. Il teorema della struttura proprietaria
Scusandomi con i giuristi, mi azzardo a ridurre in brevi proposizioni, che quasi si compongono in un teorema, le tesi estraibili (con qualche fatica, considerando la prolissità dei testi) da una parte forse dominante della moderna letteratura di law and economics(e non solo di quella di Chicago e dintorni).
a) La proprietà diffusa delle imprese (quotate) è un assetto in sé desiderabile e preferibile ad altri.
b) Una protezione inadeguata degli azionisti di minoranza ( outsiders) contro l'appropriazione di benefici privati da parte dell'azionista di controllo rappresenta un incentivo alla concentrazione della proprietà.
c) Pertanto, un regime adeguato di protezione dell'investitore induce necessariamente diffusione della proprietà e, per contro, un assetto proprietario non diffuso è indice di insufficiente protezione.
Intendo argomentare che: la proposizione a) è non dimostrata e non provata, e probabilmente nè dimostrabile nè provabile; la proposizione b) vale, ma non vale la conclusione, che se ne trae in c), di una natura biunivoca ("se e solo se") della relazione fra protezione dell'investitore e assetto proprietario. Mi soffermerò poi brevemente su alcune questioni di politica legislativa e concluderò ponendo un problema non risolto.
2. Se esista un assetto "superiore" di struttura proprietaria.
Chiediamoci anzitutto se vi siano validi motivi che consentano di stabilire la superiorità di un assetto proprietario diffuso rispetto a uno concentrato. La "superiorità" deve essere valutata in termini di efficienza, ovvero di effetti sulla performancee, come oggi si dice, sulla creazione di valore; e questa valutazione può essere compiuta a livello microeconomico - di impresa - e a livello di sistema.
Anzitutto, non si rinvengono nella letteratura ragioni teoriche cogenti per preferire l'una o l'altra struttura (4): all'impresa a proprietà diffusa è associato un forte potere dei manager, e pertanto un costo di agenzia, che può essere elevato; lo stigma della proprietà concentrata è la possibilità di appropriazione dei benefici privati del controllo. Non mi pare che si vada molto oltre.
Per quanto riguarda la verifica empirica a livello microeconomico, una recente rassegna (Holderness (2001)) rinviene scarso supporto all'ipotesi che la concentrazione influenzi le decisioni aziendali; né risulta conclusivamente se l'effetto della concentrazione proprietaria sul valore dell'impresa sia positivo o negativo, trattandosi in ogni caso di un effetto modesto. Franks e Mayer (2001), trovano che alla differenza di assetti societari fra Germania e paesi anglosassoni non corrisponde analoga diversità nell'efficacia del governo societario, anche se si manifestano notevoli differenze di trattamento degli azionisti di minoranza nel mercato del controllo. Osservo ancora, nella stessa vena, che episodi recenti di violente fluttuazioni dei corsi azionari e di macroscopici errori di valutazione industriale che ne sono alla base (ad esempio nel settore delle telecomunicazioni) hanno una connotazione settoriale di natura globale, affatto indipendente dalla struttura proprietaria all'interno del settore.
Non è ovvio, né precisamente definibile perché e come uno specifico assetto proprietario delle imprese quotate debba influenzare l'efficienza di sistema. Prima ancora di considerare i possibili nessi, conviene tuttavia rammentare quanto siano labili le opinioni in proposito.
Negli anni settanta-ottanta, quando l'economia americana languiva, sopravanzata dalla vigorosa crescita di Giappone e Germania, era di moda teorizzare la superiorità del modello di un monitoringassicurato da azionisti di controllo rispetto a quello, anglosassone, di proprietà diffusa e controllo dei managers illustrato da Berle e Means. La successiva eulogia della proprietà diffusa coincide con la fase di intenso sviluppo degli Stati Uniti (e del Regno Unito). Non sorprenderebbe che un nuovo ciclo industriale possa provocare un nuovo ciclo della dottrina. (In casa nostra, ma potendo citare anche letteratura internazionale dell'epoca, ricordiamo la moda antica del modello delle partecipazioni statali e quella, più recente, del "piccolo è bello" e delle imprese di famiglia).
I nessi che vengono a volte evocati fra struttura proprietaria e efficienza di sistema paiono, se ben comprendo (ma non è facile comprendere), essere i seguenti. Una struttura proprietaria concentrata provoca un maggior costo del capitale per due vie: una minore liquidità del mercato azionario; una maggiore remunerazione dell'investimento richiesta dagli investitori esterni, nella consapevolezza delle possibilità di espropriazione da parte del socio di controllo. Concentrazione della proprietà e maggior costo del capitale di rischio (due fattori che interagiscono) determinano un maggior ricorso all'autofinanziamento e al debito rispetto al capitale esterno di rischio e (si ragiona da alcuni) una prevalenza delle banche rispetto al mercato: con - parrebbe - rischi di sottoinvestimento e possibile pregiudizio dell'efficienza allocativa.
Mi chiedo anzitutto se la composizione del passivo delle imprese possa rappresentare un utile discrimine per valutare assetti proprietari diversi, rinviando al paragrafo successivo una breve discussione della misura dei benefici privati in relazione al costo del capitale. Non v'è bisogno di resuscitare il teorema di Modigliani-Miller per esprimere in proposito dubbi non facilmente superabili. In primo luogo non si può fare ricorso alle ricerche empiriche che hanno cercato di stabilire relazioni fra protezione dell'investitore, struttura proprietaria e sviluppo del mercato finanziario: lo sviluppo finanziario, infatti, è misurato in termini di ricorso generico al finanziamento esterno, si tratti di debito o di capitale di rischio(5). In secondo luogo, accantonata ormai la distinzione fra sistemi "bancocentrici" e sistemi "mercatocentrici", se non altro per la difficoltà di identificarne gli archetipi, si osserva empiricamente che capitale di rischio e debito sono fonti di finanziamento complementari e non alternative. In terzo luogo, il ricorso all'una o all'altra fonte di finanziamento è dettato anche (o soprattutto?) da fattori estranei alla struttura proprietaria, di cui, anche a trascurare l'importanza della dimensione delle imprese e dei mercati, finanziari e dei prodotti, ne ricordo uno importante: le imprese che hanno una prevalenza di attività intangibili ricorrono all' equitymolto di più di quelle che hanno attività tangibili, più agevolmente impiegabili come garanzia reale dell'indebitamento(6). Infine, sul piano teorico, esiste una letteratura che vede nel ricorso al debito una forma di commitmentefficace, e dunque di maggiore garanzia, da parte dell' insider, a motivo della maggiore capacità di monitoraggio del debitore rispetto all'azionista di minoranza(7).
3. I benefici privati del controllo e il costo del capitale
E' fuori discussione che la struttura proprietaria "può alterare il modo in cui azionisti, manager e soggetti controllanti si dividono il valore prodotto dall'impresa" (Bebchuk e Roe (1999)). Basta in effetti un semplice modello per dimostrare con qualche rigore che, quanto più deboli sono i presidi a tutela degli azionisti di minoranza e quanto maggiori sono in conseguenza i benefici appropriabili, a loro spese, dall'azionista di controllo, tanto maggiore è l'incentivo alla concentrazione della proprietà (proposizione b, supra). Questa proposizione, di per sè, non consente tuttavia di trarre inferenze certe sul valore dell'impresa e sul costo del capitale in relazione a diverse strutture proprietarie.
In primo luogo, possono esservi benefici derivanti dal controllo che il controllante ottiene senza pregiudizio per gli azionisti di minoranza o che addirittura questi condividono. Un esempio rilevante dei primi è il peso politico e il prestigio sociale di cui gode il soggetto che controlla un'importante società(8). Fra i secondi - i cosiddetti shared benefits of control,ovvero benefici internalizzati - primeggia quello, sovente citato, di un monitoraggio più efficiente di cui si fa carico il socio maggioritario. A questo proposito, ogni valutazione dovrebbe confrontare comunque il costo per gli azionisti minoritari dei benefici privati estratti dall'azionista maggioritario con i costi di agenzia di una gestione manageriale(9). In secondo luogo, manchiamo sia di analisi empiriche solide (che forse neppure sono possibili), sia, e soprattutto, di misure affidabili dei benefici privati in senso stretto (ossia di quelli appropriati o appropriabili a spese degli azionisti di minoranza). Non è certo affidabile come misura quella, sempre citata, del voting premium, ovvero dello sconto di quotazione delle azioni prive di diritto di voto rispetto a quelle con diritto di voto (Zingales (1994)). Come mostra una recente analisi(10),lo sconto delle azioni di risparmio rispetto a quelle ordinarie è influenzato da altre variabili, quali i tassi d'interesse; è assai volatile; aumenta, se aumenta il grado di protezione assicurato agli azionisti portatori di azioni con diritto di voto. L'evidenza sui prezzi delle transazioni ai blocchi è mista, essendo fra l'altro difficile distinguere fra investimento solo finanziario e investimento compiuto al fine di incidere sulla gestione(11). Si potrebbe trarre qualche maggiore indicazione dai prezzi delle offerte pubbliche: ma dovrebbero escludersi quanto meno i casi di offerta totalitaria, in cui il prezzo, se superiore a quello di mercato, potrebbe riflettere un'attesa di benefici da monitoraggio, più che un'attesa di benefici privati.
Per verificare l'esistenza di benefici privati nel caso di proprietà concentrata e, soprattutto, degli effetti che ne derivano sul costo del capitale, si potrebbe accertare se esista uno "sconto da concentrazione": se, in chiaro, considerando due società per altro verso analoghe, quella più concentrata ha una quotazione minore in relazione al valore intrinseco, comunque misurato, poiché il mercato "prezza" correttamente la possibilità di appropriazione di benefici privati. Non mi consta che esistano indagini siffatte. Si tenga tuttavia presente che tale sconto, ove se ne verificasse l'esistenza, potrebbe non essere dovuto esclusivamente alla percezione di benefici privati appropriabili dal socio controllante: esso infatti potrebbe anche essere imputabile alla minore contendibilità della società e dunque alla minore probabilità di un'offerta ostile.
In definitiva, le argomentazioni di questo paragrafo completano e confermano quelle del paragrafo precedente. Né l'analisi teorica né quella empirica offrono ragioni valide e convincenti per affermare in termini generali la superiorità, sempre e ovunque, di un sistema societario a proprietà diffusa rispetto ad uno con proprietà concentrata.
4. La convergenza degli assetti proprietari
La proposizione, condivisibile, che una debole protezione degli azionisti di minoranza offre un incentivo alla concentrazione proprietaria non consente, di per sé, di ritenere che: un assetto proprietario concentrato è sintomo inevitabile di insufficiente protezione; un aumento adeguato del grado di protezione provoca necessariamente diffusione della proprietà (proposizione c, supra). Eppure, proprio sulla duplice accettazione di questi nessi di causalità e della tesi della intrinseca superiorità economica dell'assetto proprietario diffuso rispetto a quello concentrato una dottrina forse prevalente dei giuseconomisti americani (con espressioni variegate, ma simili nella sostanza) fonda le sue previsioni epocali di una convergenza, storicamente inevitabile, di strutture e di ordinamenti(12).
Il nesso biunivoco fra protezione dell'investitore e assetto proprietario non trova conferma nella realtà. In generale, si vuole ricordare che un regime prevalente di proprietà diffusa si manifesta solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. E' ben vero che si tratta dei due sistemi finanziari più sviluppati; ma pare improbabile che tuttigli altri sistemi si trovino alla retroguardia. Più in dettaglio, l'esistenza di quel nesso è contraddetta da alcune osservazioni specifiche.
Si riconosce che l'ordinamento canadese garantisce all'investitore un livello di tutela analogo a quello degli Stati Uniti(13); in Canada, tuttavia, la struttura proprietaria è notevolmente concentrata (14). La stessa osservazione vale per il Giappone. Lo sviluppo del mercato finanziario è stato particolarmente vigoroso in due paesi, Olanda e Germania, che non si distinguono per livelli elevati di protezione societaria delle minoranze e che non favoriscono certo la contendibilità. All'innegabile miglioramento del livello di protezione dell'investitore nell'Europa continentale in generale e in Italia in particolare non si sono accompagnati mutamenti di rilievo della struttura proprietaria(15). Le società straniere che si quotano sui mercati anglosassoni (NYSE e LSE), così accettando le regole di protezione dell'investitore stabilite in quegli ordinamenti, sono sovente imprese a proprietà concentrata, che tali rimangono anche quotazione.
Quest'ultima osservazione è anche poco compatibile con la tesi, variamente formulata, della necessaria convergenza dei sistemi verso un solo modello: quello di una pax americana, nella duplice dimensione di regime giuridico e regolamentare e di regime proprietario delle società. I titoli, spesso fantasiosi, possono essere diversi e diverse le modalità di svolgimento disegnate(16): ma la trama pare comunque avere una struttura comune. Posto che la proprietà diffusa è l'assetto che garantisce la maggiore efficienza e il minor costo del capitale; posto che la diffusione della proprietà è assicurata dalle leggi, dalle regole, dalle pratiche giurisprudenziali che garantiscono la tutela dell'investitore; posto altresì che la proprietà diffusa è caratteristica dei sistemi anglosassoni: la concorrenza fra sistemi e fra imprese produrrà a lungo andare i seguenti risultati. O gli ordinamenti degli altri paesi si adatteranno a quelli anglosassoni; ne seguirà, in quei paesi, una riduzione del grado di concentrazione oggi presente. Oppure le imprese emigreranno verso i mercati anglosassoni, per ottenere, dalla quotazione in essi, un certificato di garanzia ( bonding) nei riguardi degli investitori e, in conseguenza, una riduzione del costo del capitale e una maggiore efficienza: l'effetto sarà anche in questo caso una deconcentrazione della proprietà. A corollario di questa trama, si prevede anche che le imprese le quali vorranno mantenere una concentrazione di proprietà continueranno a quotarsi in mercati di periferia marginali o emarginati, quasi riserve indiane, in cui l'insufficiente protezione dell'investitore garantirà la persistenza della concentrazione.
Questa tesi della convergenza degli assetti proprietari conseguente a una convergenza di ordinamenti non regge se non ne valgono le premesse: ho già argomentato che quelle premesse non trovano conforto nella teoria né nei fatti. Vorrei aggiungere tre notazioni, che affido soprattutto ai giuristi, circa la generica nozione di convergenza di ordinamenti.
In primo luogo, esistono importanti differenze all'interno dei sistemi anglosassoni, proposti come modello. Per quanto riguarda la disciplina delle offerte ostili, di grande rilevanza per il mercato del controllo, Inghilterra e Stati Uniti si situano a poli opposti. La disciplina (di autoregolamentazione, ma da tutti accettata) del City Code, a cui si conformano gli interventi del Takeover Panel, pone limiti assai vincolanti alle possibilità di difesa da parte degli amministratori delle società bersaglio, richiedendo che le azioni di contrasto debbano essere approvate dall'assemblea degli azionisti. Negli Stati Uniti, per contro, questi limiti sono stati rimossi (dopo gli eccessi degli anni ruggenti dei raiderse dei leverage buy-out): le pillole avvelenate sono ammesse, con il solo confine dell'intervento dei giudici quando le iniziative degli amministratori abbiano danneggiato gli azionisti. Quale delle due discipline deve essere l'obiettivo della convergenza? Noto in proposito che mal si comprende come l'esaltazione della proprietà diffusa possa conciliarsi con il favore verso una disciplina che incoraggia le offerte ostili (17): ossia che incoraggia quello che non per caso viene chiamato il mercato del controllo.
In secondo luogo (ma qua vado veramente ultra crepidam) la nozione di convergenza di ordinamenti con riferimento al diritto societario e al diritto e alle regole dei mercati finanziari pare a dir poco generica quando si trascuri la profonda differenza delle "famiglie legali" a cui appartengono i diversi paesi. Si potrà empiricamente argomentare, con misurazioni più o meno convincenti, la superiorità dei sistemi di common lawrispetto a quelli, pur fra loro diversi, di civil law(18). Tuttavia, se non si possiedono ambizioni napoleoniche, ci si dovrà chiedere come si debbano adattare i mezzi di protezione dell'investitore alle caratteristiche della famiglia legale a cui ogni paese appartiene.
A conforto di questa seconda notazione, si consideri infine che il presente assetto dei due sistemi anglosassoni è il risultato di un'evoluzione secolare, che ha visto come premessa la preesistenza di un mercato finanziario già sviluppato. In questo ambiente, l'autoregolamentazione delle borse ha preceduto l'intervento legislativo, fissando requisiti di quotazione e definendo soft principlesdi comportamento per favorire lo sviluppo del mercato (19). L'evoluzione di altri sistemi dovrà avvenire seguendo un percorso diverso: teorizzare la inevitabile convergenza senza occuparsi di questi problemi pare poco utile.
5. Questioni operative: quale convergenza?
Chi cerca di saltare a cavallo della storia di solito finisce disarcionato: e tanto vale per quanti propongono scenari futuribili di convergenza universale. Ma le generalità che li ispirano rischiano di essere fuorvianti sul piano normativo, poiché sovrappongono, e confondono, due obiettivi diversi: quello della protezione dell'investitore, che è il solo che dovrebbe interessare; e quello, invece irrilevante, della proprietà diffusa. In ogni realtà gli assetti proprietari rappresentano un dato: toccherà agli storici economici spiegare come essi si siano formati. Tocca invece ai giuristi, agli economisti, e ai loro ibridi disegnare i mezzi di protezione dell'investitore, adattandoli agli assetti esistenti, nonché alle istituzioni e ai sistemi legali dei diversi paesi.
Proprio in questa vena, Cheffins (1999), giustamente si chiede se Milano si debba adattare a Londra o non piuttosto a Toronto. In chiaro: in un sistema come il nostro, in cui è prevalente, con poche eccezioni, la proprietà concentrata, con la presenza di un socio (o di un sindacato di soci) di controllo, i presidi di difesa degli azionisti minori contro gli abusi dei manager, tipici dei sistemi con prevalenza di proprietà diffusa, sono meno rilevanti, perché meno efficaci, per la difesa degli azionisti di minoranza contro il self-dealingdei soci controllanti.
Per esemplificare, a poco serve introdurre, come oggi è di moda chiedere, gli amministratori indipendenti, i quali, essendo nominati in un'assemblea in cui un socio controlla, di diritto o di fatto la maggioranza dei voti, rischiano di essere tali solo di nome (20). Acquistano invece maggior rilievo le responsabilità dei sindaci e dei revisori. E acquista maggior rilievo la disciplina delle transazioni con parti correlate (e dunque in potenziale conflitto d'interesse), decise dagli amministratori che esprimono i soci controllanti della società, essendo più probabile che questi, diversamente dai managers di imprese a società diffusa, controllino altre società che siano parti di quelle transazioni.
In situazioni di proprietà concentrata la partecipazione alle assemblee degli azionisti minoritari è solitamente più bassa. Quando è inoltre debole la voce degli investitori istituzionali, come lo è ancora nel nostro sistema, assume particolare importanza, anche ai fini degli obblighi informativi e degli obblighi di offerta pubblica, una definizione rigorosa della nozione di controllo di fatto in tutti i casi in cui un socio, pur non controllando la maggioranza del capitale sociale, riesce a esprimere stabilmente la maggioranza dei voti nelle assemblee.
Menziono infine due questioni, di ordine più generale, la cui soluzione è necessariamente condizionata dai dati ambientali. La prima riguarda la natura dei presidi posti a tutela degli azionisti di minoranza: semplificando, conviene potenziarne la "voce" o agevolarne la possibilità di exit(21)? I rimedi di voce, che si esplicano soprattutto nei poteri di denuncia e di ricorso ai giudici, sono ovunque costosi e danno luogo a un classico problema di "azione collettiva": ogni piccolo azionista, piuttosto che impegnarsi per primo, sarà indotto ad attendere che qualcun altro lo faccia ( free riding). Questo problema diviene assai più acuto in un ambiente caratterizzato dalla presenza di potenti soci di controllo e in cui, inoltre, i rimedi giudiziari sono particolarmente lunghi e costosi. Conviene in questo caso mettere in opera tutte la condizioni che consentano decisioni tempestive e ragionate di uscita: tali condizioni si verificano con un obbligo di informazione piena e continua sull'operato e sulle decisioni degli amministratori(22).
La seconda questione riguarda il livello al quale si devono introdurre le correzioni e le innovazioni necessarie: norme civilistiche, norme della legislazione dei mercati, regole dettate dai gestori del mercato, codici di condotta, soft principles? Negli ordinamenti più avanzati, come ho detto, l'autonoma iniziativa dei mercati ha preceduto quella legislativa: la self regulationha preceduto le mandatory rules. E' lecito dubitare che il percorso possa essere il medesimo in quando la proprietà azionaria è concentrata e quando la gestione dei mercati, mai caratterizzata da un regime mutualistico fra i partecipanti, è passata da un regime pubblicistico ad uno, puramente privatistico, di società a fini di lucro. Mancano, in una situazione siffatta, le contrapposizioni di interessi - checks and balances- che garantiscono una penetrante efficacia dell'autoregolamentazione e dei codici di condotta.
6. Conclusioni; e un problema
In questa nota ho esaminato le proposizioni che - mi pare - si possono enucleare da contributi di studiosi, soprattutto americani, di law and economicsin tema di assetti proprietari e governo societario. Con drastica (e pertanto deplorevole, ma forse non implausibile) semplificazione, le ho composte in un teorema, che enuncia la superiorità della proprietà diffusa sulla proprietà concentrata e l'esistenza di un nesso biunivoco fra grado di protezione degli investitore e assetti proprietari. Il corollario di questo teorema è la tesi secondo cui la concorrenza fra imprese e ordinamenti provocherà la convergenza degli uni e/o delle altre verso il modello anglosassone di corporate governanceedi diffusione della proprietà delle imprese quotate.
Ho cercato di dimostrare che quelle enunciazioni, e pertanto il corollario che ne discende, non trovano conforto nella teoria o nei fatti. Ho notato, in aggiunta, che esse, se accolte, possono essere fuorvianti sul piano normativo: non solo possono indurre a una passiva attesa dell'inevitabile compimento della storia; non solo confondono un obiettivo serio, che è quello della protezione dell'investitore, con una dimensione non rilevante a quei fini, che è quella degli assetti proprietari; rischiano anche di impedire un disegno efficiente di regole, che, per essere tale, deve adattarsi all'ambiente di riferimento.
In chiusura, desidero porre un problema serio(23), che non ho trattato, che trova poco spazio nella letteratura alla quale mi sono riferito e per il quale non è facile rinvenire rimedi con regole di corporate governance.
La distinzione fra proprietà diffusa e proprietà concentrata pecca di semplicismo, poiché trascura le possibilità di separazione del controllo dalla effettiva proprietà (misurata dai cashflow rightsin una società). La tassonomia dei mezzi di separazione del controllo dalla proprietà è variegata: azioni a voto multiplo, partecipazioni incrociate, il trustolandese, l'acquisizione di deleghe di voto, come fanno le banche tedesche, i gruppi piramidali. Nota Marco Becht (1999) che nella definizione di un sistema di governo societario si affronta sempre un trade-offfra tre obiettivi: efficacia del monitoraggio, struttura corretta di incentivi, liquidità del mercato. In generale, è difficile disegnare un sistema che li raggiunga tutti e tre: ad esempio, la concentrazione della proprietà assicura il monitoraggio ma sacrifica la liquidità, mentre avviene l'opposto nel caso di proprietà diffusa. Nel caso di separazione del controllo dalla proprietà ottenuta con un gruppo a piramide dà luogo la soluzione è quella meno efficiente, poiché compromette due dei tre obiettivi: offre incentivi sbagliati e sacrifica la liquidità. A questa inefficienza sociale si aggiunge una inefficienza privata. Come ho detto in precedenza, non vi sono prove affidabili di un effetto della struttura proprietaria sul costo del capitale. Vi è invece diffusa evidenza di una penalizzazione dei gruppi piramidali, che si manifesta in uno holding discountmisurabile e misurato: il mercato, scontando l'inefficienza del gruppo piramidale in termini di incentivi, valuta l'entità controllante meno della somma delle partecipazioni nelle società controllate.
E' difficile immaginare rimedi di diritto societario o dei mercati che impediscano la diffusione in alcuni paesi di strutture piramidali(24). Né provvede il mercato, poiché la penalizzazione che esso infligge ai corsi azionari delle capogruppo non basta a impedire la persistenza di lunghe catene societarie. Ci si deve allora chiedere se le (giustamente) deprecate strutture piramidali non siano favorite, nei paesi ove esse fioriscono, da condizioni di contorno, ad esempio di natura tributaria, ad esse favorevoli. Ecco un utile campo d'indagine congiunta per giuristi ed economisti.
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Note:
1. Intervento tenuto al XVI Convegno LE NUOVE FUNZIONI DEGLI ORGANI SOCIETARI:VERSO LA CORPORATE GOVERNANCE? - Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale
2. Questa nota esprime solo le opinioni personali dell'autore.
3. Si veda soprattutto la serie di contributi di La Porta, Lopez-De-Silanes, Shleifer e Vishny, (1997), (1998), (2000). Questi contributi, che contengono le prime estese indagini empiriche sulla materia a livello internazionale, sono stati variamente criticati: si veda in particolare Rajan e Zingales (2001). Essi si collegano ad altra letteratura empirica, che stabilisce un collegamento fra sviluppo finanziario e sviluppo economico: si veda per tutti Levine (1997), Beck, Levine e Loayza (2000) e numerose elaborazioni dell'OCSE.
4. Si vedano, ad esempio, Shleifer e Vishny (1997), Bebchuk e Roe (1999), Becht (1999), Bratton e McCahery (2000) e anche, con qualche riluttanza, Coffee (1999)
5. Così nei contributi citati in nota 1.
6. V. Rajan e Zingales (1995). Depone in questo senso l'esperienza della new economy.
7. Si veda la letteratura citata in Shleifer e Vishny (1997).
8. In Italia la (mutevole) gerarchia sociale potrebbe essere misurata dal posto assegnato agli invitati alla relazione annuale del Governatore della Banca d'Italia.
9. Gli esempi di siffatti costi di agenzia sono molteplici, in termini sia di remunerazioni dei manager, sia di salvaguardie finanziarie da essi ottenibili in caso di licenziamento (da ultimo i 300 milioni di sterline pretesi dagli amministratori di Marconi, che trascinarono quella società in crisi profonda), sia di mismanagement(si pensi al caso della Enron).
10. Condotta in Consob da N. Linciano e G. Siciliano , di prossima pubblicazione.
11. Dyck e Zingales (2002) tuttavia usano i premi delle transazioni ai blocchio come misura dei benefici privati in un esteso confronto internazionale; Franks e Mayer (2001) offrono evidenza dei premi pagati sulle transazioni ai blocchi in Germania.
12. V. fra gli altri Easterbrook e Fischel (1991), Easterbrook (1997), Coffee (1997), (2001), Hansmann e Kraakman (2001); in qualche misura anche Pardolesi e Portolano (2001). Fra le voci contrarie,Bebchik e Roe (1999), Bratton e McCahery (1999), Roe (2001), Rossi (2001).
13. Lo riconosce Coffee (2001) in nota 232.
14. V. Cheffins, (1999)
15. In Italia la concentrazione proprietaria, ridottasi fra il 1996 e il 1997-98 grazie alle privatizzazioni, è poi tornata ad aumentare: fra il 1997 e il 2000 la quota del primo azionista delle società quotate in borsa è passata dal 38,7 al 44 per cento; quella dei primi tre azionisti dal 44,8 al 50,9; la quota del mercato si è ridotta dal 52,9 al 46,6 percento. Vedi Consob (2001).
16. nelle versioni di convergenza assoluta, convergenza funzionale, convergenza verso sistemi ibridi (fine della storia, futuro come storia e via dicendo).
17. Così Pardolesi e Portolano (2001).
18. V. La Porta, Lopez-De-Silvanes, Shleifer e Vishny (1997) e (1998).
19. V. Coffee (2000), Cheffins (2001).
20. V. Rossi (2001).
21. V., sulla distinzione, Lowenstein (1999) e Libonati (2001).
22. L'informazione dispiega meglio la sua efficacia in un ambiente favorevole alla tutela dell'investitore: in un ambiente, dunque, in cui i mediasiano indipendenti e in cui sia penetrante quella che Lowenstein (1999) definisce " the voice of the paparazzi".
23. Un altro problema intrigante è perché, quanto meno in Italia, gli azionisti di maggioranza detengano partecipazioni azionarie superiori a quelle sufficienti ad assicurare il controllo.
24. L'Italia occupa un posto di rilievo. Nell'anno 2000 il rapporto fra capitale controllato e capitale investito nei primi dieci gruppi quotati non pubblici era di 1,8: in diminuzione rispetto a dieci anni prima (quando era di 2,4), ma pur sempre molto elevato.